Di seguito il testo di un intervento al corteo no tav contro la circonvallazione ferroviaria di Trento di sabato 17 dicembre (l’immagine è della manifestazione dello scorso aprile).
Volevo provare ad allargare lo sguardo verso un tema che in realtà è strettamente intrecciato con le grandi opere e più in generale con nocività e devastazioni ambientali: la digitalizzazione – e la cosiddetta transizione ecologica, che sempre più vengono presentate come una cosa sola.
Sono questioni intrecciate almeno in due modi – oltre ad essere tenute insieme dal PNRR, che destina gran parte delle risorse proprio a grandi opere e digitalizzazione.
Il primo collegamento è che il digitale è in sé un disastro ambientale. Per produrre un banale smartphone – tanto per fare un esempio, ma lo stesso vale per tutti i dispositivi e le apparecchiature che compongono il mondo cosiddetto smart – servono decine di materie prime, molte delle quali, come i cosiddetti metalli rari, devono essere estratte con procedimenti tali da condannare a morte gli abitanti e gli ecosistemi di intere zone del pianeta. Vanno infatti separate dai materiali spesso radioattivi ai quali in natura si trovano mescolate in quantità minime attraverso lo sbancamento di intere montagne e attraverso bagni di acido, producendo enormi quantità di scorie tossiche e compromettendo le risorse idriche. Il dispiegamento della rete 5G, oltre all’inquinamento elettromagnetico senza precedenti che comporterà, richiederà una quantità inimmaginabile di nuovi ripetitori e di chilometri di fibra, oltre a far sostituire buona parte degli smartphone, e a consentire un’ulteriore esplosione della produzione di dati, con centinaia di miliardi di oggetti connessi, che a loro volta nel giro di pochi anni diventeranno rifiuti elettronici. E lo stesso destino spetta anche ai cavi sottomarini che tappezzano i fondali oceanici per permettere la connessione intercontinentale… I milioni di data center che permettono ogni nostra attività online consumano già oggi una quota significativa dell’energia elettrica globale, per non parlare dell’acqua necessaria per il loro raffreddamento: l’esatto contrario dell’impalpabilità suggerita dal termine cloud, “nuvola”. Inoltre, di fronte agli sconvolgimenti geopolitici e alla crescita esponenziale del fabbisogno di materie prime, la loro estrazione sarà sempre più rilocalizzata anche in Europa – ci sono già diversi progetti estrattivi anche in Italia…
Va sottolineato che questo devastante estrattivismo è inseparabile da tutti gli strumenti digitali, indipendentemente dall’uso che se ne fa, compresi quelli introdotti usando come grimaldello promesse di efficienza, “sostenibilità” o addirittura di “salvare vite”…
E va sottolineato che tutto questo vale anche per tutte quelle tecnologie per le quali passa la cosiddetta transizione ecologica, dalla produzione e distribuzione “intelligente” di energia “rinnovabile” alle auto elettriche… l’ennesima fuga in avanti per non doversi chiedere a cosa serve tutta quest’energia e non dover mettere in discussione il sistema che ne ha bisogno.
Il secondo collegamento fra digitalizzazione e nocività è che la digitalizzazione andrebbe vista come una sorta di controrivoluzione preventiva nei confronti della possibilità stessa di combatterle, le nocività – e non solo le nocività.
Siamo di fronte a tecnologie che contemporaneamente provocano le devastazioni e servono a rendere la vita impossibile a chi alle devastazioni si oppone in modi che non siano quelli autorizzati, cioè puramente simbolici e del tutto inoffensivi. E non si tratta solo dell’uso repressivo in senso stretto.
L’imposizione, appena lo scorso inverno, di un certificato digitale di obbedienza per poter circolare e perfino per poter lavorare dovrebbe aver insegnato qualcosa: si tratta di dotarsi di un’infrastruttura che consenta di registrare e valutare nel mondo più automatico possibile tutti i comportamenti, e modulare di conseguenza l’accesso ai servizi, escludendo tutti coloro che non possono o non vogliono girare al ritmo imposto dalla società. Si tratta di equipaggiare tecnicamente una logica “premiale” che da tempo ha fatto breccia e che si sta estendendo a macchia d’olio a tutti i settori della società: dalle “patenti a punti” per gli inquilini delle case popolari alla “mini naja” volontaria che avvantaggerebbe nei concorsi pubblici, la Cina è vicina.
In questa direzione lavorano insieme molti sistemi diversi che sarebbe il caso di riconoscere come ingranaggi della stessa macchina: da quelli che analizzano i nostri comportamenti per dare al mercato la possibilità di anticiparli con l’offerta giusta al momento giusto, alla strisciante imposizione dei pagamenti elettronici e tracciabili, alla cosiddetta identità digitale, ai contatori “intelligenti” che promettono una distribuzione più efficiente dell’energia ma permettono anche il controllo da remoto…
Per chi pensa che qui non si potrà mai fare l’uso che del digitale fanno gli stati “autoritari” (come se esistessero stati non autoritari…), è ancora il caso di ricordare cos’è successo negli ultimi anni: l’emergenza giustifica tutto, e sono bastati pochi mesi per trovarci materializzata davanti quella realtà cinese che era sempre stata descritta come distopica, con i democratici in prima fila ad applaudire e a chiederne di più.
E l’emergenza è ormai la modalità ordinaria di governo della società: dal covid alla guerra all’emergenza energetica, e anche per quella climatica che si profila non è difficile immaginare una gestione in mimetica e QR code come quella che abbiamo conosciuto: criminalizzazione e controllo dei comportamenti individuali, professioni di fede nelle tecnoscienze, nessuna concessione a dubbi sulle questioni di fondo.
A proposito di Cina e grandi opere, e di come infrastrutture e digitalizzazione vanno di pari passo, alla cosiddetta “nuova via della seta”, il gigantesco progetto infrastrutturale per collegare via terra e via mare la Cina all’Europa e all’Africa, si accompagna una “via della seta della comunicazione” digitale, indispensabile per abilitare quella fisica.
Un mondo percorso da corridoi dove le stesse opere e le stesse tecnologie che servono per ottimizzare i flussi di merci – sempre più merci – e di turisti – sempre più turisti, con in più la spudoratezza di parlare di “turismo sostenibile” contro l’evidenza che l’unica opzione “sostenibile” sarebbe darci un taglio – servono anche per impedire alle persone meno gradite di muoversi con la stessa facilità… e servono anche come infrastrutture militari.
Un mondo automatizzato per ottimizzare i flussi anche della speculazione finanziaria, che viaggia ormai sul filo dei millisecondi, e sempre più – letteralmente – con il pilota automatico.
Un mondo automatizzato per ottimizzare lo sfruttamento (altro che “liberarci” dal lavoro), monitorando costantemente le nostre prestazioni per decidere se, quando e a quali condizioni potremo lavorare.
Grazie alla telemedicina, un mondo di decisioni automatiche anche su come manutenere i nostri corpi (-macchina), per adattarli a condizioni ambientali e lavorative sempre peggiori.
E va considerato come lo sviluppo e la gestione – e sempre di più perfino la comprensione – di tutto questo mondo smart siano per forza di cose, vista la loro complessità crescente, radicalmente sottratti al controllo degli individui, a vantaggio di stati e multinazionali organizzati in caste di tecnici, burocrazie e catene globali del valore sempre più imperscrutabili.
Un’ultima considerazione: un mondo che mira a eliminare l’imprevedibilità è un mondo dell’obbedienza, ma anche, come qualcuno ha fatto notare, un mondo misero, in cui è bandita la possibilità e perfino la pensabilità di strade e futuri diversi, e forse dovrebbe bastare questo per odiarlo e combatterlo con tutte le nostre forze.
Un mondo di fronte all’avanzata del quale è urgente mettersi di traverso.