Il testo che segue è la trascrizione, leggermente rivista, di un intervento a un’iniziativa antimilitarista a Bolzano, sabato 9 aprile (nell’immagine qui sopra, l’Iveco Defence Vehicles di Bolzano). Proprio mentre lo pubblichiamo, scopriamo che martedì il Senato ha approvato, praticamente all’unanimità, una proposta di legge che istituisce la “Giornta nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”. La giornata sarà il 26 gennaio (il giorno prima della giornata della memoria della Shoah!), e il fine – riporta il testo della legge – è quello di “conservare la memoria dell’eroismo dimostrato dal Corpo d’armata alpino nella battaglia di Nikolajewka durante la Seconda guerra mondiale [quindi nell’aggressione nazifascista alla Russia], nonché di promuovere i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale [!] nonché dell’etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato, che gli alpini incarnano”. Pensiamo che si commenti da sé.
Non vogliamo cimentarci in analisi geopolitiche, che tra l’altro lasciano spesso un senso di impotenza, per quanto necessarie. Ci premeva invece ribadire un paio di quelle che dovrebbero essere delle ovvietà e condividere un paio di considerazioni sparse su aspetti che forse possono apparire un po’ “laterali” rispetto al conflitto in corso ma che ci sembrano importanti.
La prima ovvietà è che il nemico è in casa nostra: lo Stato e l’esercito italiano – impegnati da trent’anni a questa parte in innumerevoli missioni militari per difendere gli interessi strategici del capitalismo italiano e alleato (missioni “di pace”, in neolingua: il divieto di usare la parola guerra non è certo un brevetto del Cremlino); le complicità dell’università – come quella di Trento – e della ricerca; e i “fiori all’occhiello” dell’industria nazionale e locale come Leonardo (il cui titolo in borsa vola dall’inizio del conflitto grazie alle facili scommesse su un’ulteriore impennata delle spese militari) e l’Iveco di Bolzano. L’esercito russo – ma per quanto ci riguarda lo stesso discorso vale per gli eserciti Nato e per qualsiasi altro esercito, non fa certo differenza – sta impiegando in Ucraina anche i blindati “bolzanini” Lince, in versione russa; si dirà che non sono certo quattro camionette a fare la differenza in una macchina bellica come quella russa, ma se i “pacifisti” facessero il possibile – per tempo – per mettere i bastoni fra le ruote ad ogni fabbrica come questa, anziché esultare ad ogni nuova commessa come quelli della Fiom…
Se è la società stessa che si è trasformata in una gigantesca macchina da guerra, il peggior nemico della pace è la pace sociale – quella che lorsignori usano chiamare coesione. Come è stato scritto, la guerra ha sempre bisogno della pace sociale. Non è dunque con le raffinate analisi geopolitiche che fermeremo i venti di guerra, bensì rompendo il fronte interno, sabotando l’unità nazionale, facendo sentire il pericolo del disfattismo. Intanto primi esempi di cosa si possa fare concretamente qui da noi per togliere le basi materiali alla guerra arrivano da quei lavoratori che si sono rifiutati di trasportare armi – mascherate da “aiuti umanitari” – dirette in Ucraina.
Anche se gli stati occidentali non dovessero entrare formalmente in guerra, è prevedibile un’ulteriore accelerazione in direzione – oltre che della corsa al riarmo che passa sotto il nome di “difesa europea”, con la conseguente ulteriore integrazione militare-industriale internazionale – della militarizzazione della società e dell’“austerità morale” che hanno caratterizzato gli ultimi due anni: oltre alla retorica bellica e patriottica, fin dall’inizio – e anche lì col PD e il centrosinistra nel ruolo di “falchi” – si è risposto alla pandemia non facendo il possibile per curare le persone e mettendo in discussione il mondo che l’ha prodotta, ma con il confinamento di massa, il coprifuoco e la militarizzazione delle città, fino ad affidare a un generale Nato la gestione dell’“emergenza”, e a considerare alla stregua di disertori coloro che non hanno accettato con entusiasmo di sottoporsi alla sperimentazione dei “vaccini” biotecnologici o di esibire un certificato di obbedienza per lavorare, spostarsi e partecipare alla vita sociale. Arrivando a vietare le manifestazioni e a invocare una “comunicazione di guerra”, alla faccia dell’indignazione per la censura in Russia (e qui dobbiamo fare un inciso: la gran parte della sinistra più o meno “estrema” che negli ultimi due anni non solo si è guardata bene dal disertare la “guerra al virus” ma si è anzi arruolata volontaria, ora può sperimentare il trattamento riservato ai no vax – ma non ci illudiamo certo che impari la lezione). Tornando alla militarizzazione strisciante, del resto questa viene da lontano, dalle ingerenze militari nella scuola all’“Operazione Strade Sicure” nelle città, all’impiego dell’esercito a protezione dei cantieri delle opere di “interesse strategico nazionale” come il TAV.
È evidente che lo stesso approccio da legge marziale ci attende sia di fronte a un eventuale allargamento del conflitto in corso e delle sue conseguenze economiche e sociali, sia di fronte alle prossime emergenze, a partire da quella climatica. Per quanto ci riguarda del condizionatore se ne potrebbe e dovrebbe fare a meno tutti anche in periodo di pace, ma la sbruffonata di Draghi ci sembra comunque indicativa di come sarà declinata l’“economia di guerra”: anche qui come per il covid, l’economia va salvaguardata letteralmente ad ogni costo, mentre il razionamento, i sacrifici e il controllo sempre più stretto riguarderanno i comportamenti individuali, e ovviamente colpiranno in modo differenziato a seconda della posizione sociale.
Basta accendere un canale a caso per qualche minuto e tra servizi sulla “rivincita del TAP” e mea culpa sul no al nucleare, il messaggio è chiaro: dimenticatevi di fare ancora gli schizzinosi su qualsiasi nocività e devastazione venga imposta in futuro per non dover mettere in discussione la folle voracità energetica del sistema economico – voracità che la transizione “ecologica” e – soprattutto – digitale moltiplicheranno: ogni nuovo dispositivo smart e ogni nuovo veicolo elettrico, esattamente al contrario della retorica che li accompagna, significano ulteriore consumo di elettricità per la trasmissione dei dati e di minerali rari, la cui estrazione è quanto di più devastante per l’ambiente, e di fronte alle crisi geopolitiche – che contribuisce a causare – tenderà sempre di più ad essere rilocalizzata in Europa.
In questo scenario il nucleare, tecnologia duale – civile e militare – per eccellenza, torna alla ribalta da una parte sotto forma della follia chiamata deterrenza, e dall’altra presentato come unica fonte energetica contemporaneamente “pulita” (!) e illimitata – e quindi indispensabile per la crescita economica. Mentre proprio in questi giorni ci accorgiamo di come la semplice interruzione della corrente in una centrale – anche dismessa! – mette un intero continente di fronte al rischio di una catastrofe, è il caso tra l’altro di ricordare come tutte le tecnologie irreversibili come il nucleare (e come l’ingegneria genetica) rappresentano un’ipoteca sul futuro non solo dal punto di vista ambientale e sanitario, ma anche dal punto di vista sociale, obbligando a salvaguardare le competenze e l’organizzazione – anche militare – necessarie a controllarle.
L’opposizione alla guerra non può che passare per la rottura della pace sociale, per l’opposizione allo Stato e alle sue emergenze, al sistema industriale e al suo bisogno di risorse.