Carte di gabinetto. Sugli «avvisi orali» a due compagni bolzanini

Nei giorni scorsi, a due compagni bolzanini è stato consegnato un «avviso orale» da parte del Questore, «affinché mantenga[no] una condotta conforme alla legge». Se di per sé il provvedimento non comporta alcuna restrizione, si tratta, per esplicito annuncio degli stessi questurini, dell’anticamera di una richiesta di «sorveglianza speciale». Per quanto l’avviso orale sia una misura in sé risibile – soprattutto se paragonata ai colpi che si abbattono su molte altre compagne e compagni –, essendo un inedito in città ci sembra sensato parlarne, sia in relazione alla mobilitazione in solidarietà con la Palestina degli ultimi mesi, sia in vista delle richieste di sorveglianza speciale che potrebbero arrivare – e di un’auspicabile mobilitazione in risposta.

Come il foglio di via, sia l’avviso orale che la sorveglianza speciale fanno parte delle cosiddette misure di prevenzione. Il primo viene emesso direttamente dal Questore e contiene solo un generico invito a rispettare le leggi, oltre alla minaccia dell’applicazione, in caso contrario, di misure ulteriori. La sorveglianza, invece, viene richiesta dal Questore o dalla Procura e sulla sua applicazione si deve esprimere il tribunale, e si tratta di una misura assai più afflittiva: di durata da uno a cinque anni, prescrive di «darsi, entro un congruo termine, alla ricerca di un lavoro, di fissare la propria dimora, di farla conoscere […] all’autorità di pubblica sicurezza e di non allontanarsene senza preventivo avviso all’autorità medesima. In ogni caso, prescrive di vivere onestamente, di rispettare le leggi, […] di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subito condanne […], di non accedere agli esercizi pubblici e ai locali di pubblico trattenimento, anche in determinate fasce orarie, di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una data ora […], di non partecipare a pubbliche riunioni». Inoltre, il tribunale «può imporre tutte le prescrizioni che ravvisi necessarie, avuto riguardo alle esigenze di difesa sociale», nonché «la misura dell’obbligo di soggiorno nel comune di residenza», e «di presentarsi all’autorità di pubblica sicurezza […] nei giorni indicati e ad ogni chiamata di essa». È inoltre possibile (e minacciata esplicitamente nell’avviso orale) la revoca della patente di guida. La violazione delle prescrizioni comporta pene fino a cinque anni di reclusione.

Il presupposto per l’applicazione di tali misure è quello della pericolosità sociale del soggetto, che dovrebbe essere dimostrata «sulla base di elementi di fatto», ma su questi elementi la discrezionalità è amplissima e normalmente vengono elencate – oltre ad elementi di sospetto più che di fatto come semplici frequentazioni – denunce per le quali non solo non è arrivata una condanna ma spesso nemmeno la conclusione delle indagini, per cui presunti reati che vedranno l’assoluzione o l’archiviazione potrebbero nel frattempo giustificare l’applicazione di una misura che comporta limitazioni della libertà più gravi dell’eventuale condanna.

Introdotte poco dopo la nascita dello Stato unitario, transitate per i diversi cambi di regime e da ultimo inserite nel codice antimafia, se da un lato queste misure sono l’eredità di un passato che non passa, dall’altro si addicono perfettamente alle tendenze in atto: l’espansione del meccanismo della colpa d’autore (punire direttamente la personalità considerata deviante più che lo specifico reato commesso); l’inversione dell’onere della prova (colpevolezza fino a prova contraria) e nel caso dei reati “politici” le pretese di abiura (ad esempio per poter accedere alle pene alternative);  la logica della premialità;  l’uso di provvedimenti amministrativi più celeri – e spesso più afflittivi – delle condanne penali. A queste tendenze, la digitalizzazione (interoperabilità delle banche dati, imposizione dell’identità digitale e dei pagamenti elettronici, ecc.) offre mezzi di una potenza inedita per far sì che qualsiasi comportamento considerato antisociale – si tratti o meno di un reato – comporti sempre più in automatico, senza le lungaggini della giustizia penale, ripercussioni pesantissime sulla libertà di un individuo. Ne abbiamo avuto un assaggio negli anni del covid.

Tornando a noi, se i due compagni destinatari dell’avviso non sono certo stati scelti a caso – fra i presupposti del provvedimento figurano la lunga serie di denunce accumulate negli anni e i legami con l’area «anarco-insurrezionalista» – “la goccia” è la mobilitazione contro il genocidio in corso in Palestina degli ultimi mesi, che, pur con i suoi limiti, è stata di inconsueta intensità per una città come Bolzano, e ha saputo aggregare molte persone al di fuori dei soliti giri più o meno militanti. Nelle carte, questo diventa «un’allarmante escalation sia qualitativa che quantitativa delle condotte devianti».

Sicuramente un ruolo ce l’ha il nuovo questore Paolo Sartori, che dal suo insediamento non perde occasione di annunciare pugni di ferro dalle pagine dei giornali e di rivendicare un’impennata di controlli straordinari, espulsioni e altri provvedimenti. È almeno da novembre però che la Questura prova a impedire che le manifestazioni per la Palestina (praticamente una a settimana da ottobre in qua) assumano una forma un po’ meno ingessata: il 4 novembre per «garantire l’ordine pubblico» viene vietato qualsiasi corteo antimilitarista (nonostante il percorso, regolarmente preannunciato, non avrebbe toccato la piazza delle celebrazioni delle Forze armate), e solo il numero e la determinazione dei presenti fanno cambiare idea ai funzionari.

Il 9 dicembre, nel corso di un presidio contro McDonald’s (che rivendica di sostenere l’esercito israeliano), un compagno imbratta con vernice rossa l’ingresso del locale. Spontaneamente, molti dei presenti lo circondano per proteggerlo dalla polizia. A quel punto il presidio si trasforma in un corteo che irrompe nel mercatino di Natale con cori e interventi, passa per la vicina Unicredit (“banca armata” per eccellenza) che viene anch’essa imbrattata e prosegue per le vie del centro. Ora dalle carte apprendiamo che per l’episodio del McDonald’s la Digos ha denunciato il compagno, oltre che per imbrattamento, anche per «resistenza aggravata».

Il 23 dicembre, un presidio di un centinaio di persone tra la stazione e il mercatino: appena si accenna a partire in corteo disturbando così il traffico turistico, viene fatta intervenire la celere che a manganellate ferisce un compagno. Anche per questo episodio apprendiamo che sono partite denunce per resistenza. In tutta risposta, la mattina di Natale alcune/i compagne/i interrompono la messa in Duomo, celebrata dal vescovo e trasmessa in tv, con uno striscione («A Gaza c’è un genocidio, il Natale è annullato») e denunciando tra l’altro la carica di due giorni prima. Il fatto ha vasta risonanza, suscitando reazioni scomposte. Come annunciato dai giornali, è effettivamente partita una denuncia per «turbamento di funzioni religiose» (ad oggi non è stata notificata).

Nel frattempo, la Questura ci prende gusto a mostrare i muscoli e il 28 dicembre un presidio di una dozzina di compagne contro gli antiabortisti (e in solidarietà con le donne palestinesi) fuori dall’ospedale viene allontanato a spintoni dalla celere dopo aver preteso di rimanere nel luogo preannunciato anziché molto più distante come prescritto. Chi aveva mandato il preavviso viene denunciato. Il 19 gennaio, anche a un presidio fuori da un altro McDonald’s viene prescritto di stare più lontano rispetto a quanto preannunciato; solo la determinazione a farsi allontanare con la forza prendendosi la strada convince a rivedere le prescrizioni.

Infine, l’episodio all’origine degli «avvisi orali»: il 12 marzo Giorgia Meloni è in visita a Bolzano; al presidio di contestazione («Governo italiano complice del genocidio»), regolarmente preannunciato, organizzato dall’assemblea cittadina in solidarietà con il popolo palestinese viene ordinato di stare lontanissimo dal NOI Techpark dove interverrà la premier. I partecipanti decidono di violare le prescrizioni e rimanere nel luogo previsto; nel corso del presidio vengono accesi due grossi fumogeni ed esplosi un paio di petardi. Il quotidiano Alto Adige (sempre il più infame sulla mobilitazione per la Palestina) titola in prima pagina «multati gli anarchici», facendo intendere tra le righe che tutti i partecipanti al presidio riceveranno una multa da 500 euro a testa per i petardi che qualcuno ha esploso – cosa che non sta né in cielo né in terra. Il tentativo è sempre quello di instillare nei non militanti che si avvicinano il pensiero che si stanno accompagnando con soggetti pericolosi che li metteranno nei guai; gli incontri fatti nelle piazze negli ultimi mesi, però, ci rafforzano nella fiducia che il gioco possa non funzionare – e che se anche qualche compagno venisse allontanato per un po’, ci sarebbe sempre qualcuno a raccogliere il testimone.

Spontaneamente, lo slogan con il quale siamo scese/i in piazza da subito è stato fermiamo il genocidio del popolo palestinese. Se non si vuole che le proprie parole rimangano vuote e inconsistenti, la domanda che scaturisce subito dopo è: come si ferma un genocidio? A meno che non ci si voglia autoingannare sulla possibilità di convincere i governi a rispettare un diritto internazionale che ogni giorno di più dimostra di essere carta straccia, l’unica risposta possibile è: attaccando, ciascuno nel suo territorio, tutti i complici; interrompendo la normalità, bloccando tutto; dando il proprio contributo a un movimento internazionale che è l’unico fattore che possa incidere. Anche nella nostra provincia i complici non mancano: dalle articolazioni dello Stato e dell’Esercito che sostengono politicamente e militarmente Israele, alle industrie belliche come l’Iveco che ha fatto e continua a fare profitti su sistemi d’arma testati contro la popolazione palestinese, ai media…

Se ancora siamo lontane/i dal mettere in campo una risposta all’altezza dell’orrore che abbiamo di fronte è per i nostri limiti, non certo perché pensiamo che non sia lecito. Chi potrebbe mai ravvedersi con un genocidio in corso in diretta televisiva e tante compagne e compagni in galera, senza perdere ogni rispetto per se stesso? (E con una guerra mondiale alle porte, si può ritenere l’acquiescenza un atteggiamento sensato anche solo sul piano della mera autoconservazione?) Per riprendere la chiusa di un bel testo proprio sulla sorveglianza speciale, rispettare la legge non è giusto. Ogni galantuomo è chiamato a infrangerla.